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Dopo la dichiarazione pubblica della figlia di Bruce Willis, Tallulah, lo psichiatra Marco Colizzi fa il punto sugli adulti che 'scoprono' di essere persone autistiche. “Le diagnosi di autismo sono in crescita, specialmente in età adulta. Un aspetto importante nell’aumento di queste diagnosi è il recente miglioramento della nostra capacità diagnostica. Non mi sorprende, quindi, la notizia relativa alla figlia di Bruce Willis e Demi Moore”.
Lo spiega all’agenzia Dire Marco Colizzi, professore aggregato di psichiatria presso il Dipartimento di Medicina dell’Università di Udine, commentando le parole della 30enne Tallulah Willis, che nei giorni scorsi ha rivelato pubblicamente sui social di aver ricevuto una diagnosi di autismo dopo essersi sottoposta ad alcuni test.
Soffermandosi sul profilo delle persone che ricevono diagnosi di autismo in età adulta, lo psichiatra aggiunge che “quella di Tallulah Willis è verosimilmente una forma non grave di disturbo dello spettro autistico, attualmente definito dal DSM 5, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, in tre livelli di severità in base al supporto richiesto e a quanto la condizione interferisca col funzionamento della persona. In questo caso siamo probabilmente in presenza di un autismo di livello 1, il meno grave, che presenta una minore necessità assistenziale e che incorpora la vecchia diagnosi di sindrome di Asperger. La giovane, dunque, ha una forma lieve di autismo”.
“È molto indicativo- evidenzia l’esperto- che si tratti di una donna. Nel nostro ambulatorio ‘ORA’, ‘Osservatorio di Ricerca di Autismo’ per la popolazione adulta, vediamo una percentuale importante di persone di sesso femminile che si rivolgono a noi per avere una diagnosi di questo tipo, in controtendenza col dato della letteratura scientifica che vorrebbe la condizione molto più prevalente nel sesso maschile. Le prevalenze, infatti, oscillerebbero da 3 a 1 fino a 7 a 1, con una differenza minore in età adulta, seppur sempre con un eccesso di diagnosi nei maschi rispetto alle femmine”.
Il professor Colizzi precisa che “entrano in gioco almeno due aspetti: il primo è la manifestazione fenotipica, ovvero il diverso modo in cui donne e uomini manifestano difficoltà legate all’autismo. La donna potrebbe infatti avere un modo di manifestare il malessere che non viene intercettato dagli operatori della salute mentale o che viene erroneamente o parzialmente diagnosticato con altre condizioni, portando quindi ad una sottostima della prevalenza di autismo nelle donne. Il secondo aspetto è che nell’autismo, specialmente se ad alto funzionamento, e soprattutto nelle donne, sembrerebbe esserci la tendenza a ‘camuffare’ i tratti autistici, rendendo ancora più difficile il riconoscimento della condizione anche al personale specializzato”.
“Un camuffamento- tiene a precisare- che crea un malessere interno estremamente importante nella persona che, ad esempio, torna a casa esausta a seguito dell’impegno messo nello studio, nel lavoro o nelle relazioni per controllare il proprio comportamento sociale”.
Ma come si manifesta l’autismo in età tardiva? Il professor Colizzi afferma che “queste persone spesso arrivano ai servizi con sintomi che potrebbero essere diagnosticati come comuni disturbi d’ansia o depressivi o, ancora, legati all’insonnia. Si tratta di sintomi che possono essere stati esacerbati da vicissitudini personali o eventi traumatici. Accade spesso però che la manifestazione di questi sintomi sia inusuale o eccessivamente protratta, o poco responsiva alle cure, o che ancor peggio i farmaci causino effetti collaterali, mettendo in dubbio l’iter diagnostico-terapeutico. Nel caso della figlia di Bruce Willis e Demi Moore è probabile che la ragazza abbia sempre avuto delle difficoltà, non necessariamente evidenti dall’esterno, che hanno però creato un malessere che è perdurato nel tempo. Potrebbe aver cercato risposte dagli specialisti anche in passato, con risultati magari parziali o non soddisfacenti, o aver ricevuto diagnosi in cui non si riconosceva pienamente”.
“Nel processo diagnostico- aggiunge- il nostro compito è proprio quello di andare a ricercare i sintomi chiave dell’autismo. Nel nostro ambulatorio abbiamo ideato un protocollo in cui effettuiamo interviste semi-strutturate che non trascurano i classici disturbi psichiatrici dell’adulto come ansia, depressione, psicosi, disturbi da stress, disturbi della personalità o insonnia, che possono essere presenti in comorbidità. Per il tramite di scale psicometriche, però, esploriamo la possibilità che i sintomi manifestati rientrino in una diagnosi di autismo, generalmente di grado lieve. La persona, dunque, potrebbe avere comunque un disturbo depressivo, ma presentare un disturbo dello spettro autistico verosimilmente preesistente. Per l’autismo, in particolare, somministriamo questionari di screening iniziali come la RAADS-R o l’Autism- Spectrum Quotient, al fine di valutare se sia poi opportuno fare ulteriori approfondimenti specialistici, incluse scale per il funzionamento intellettivo che spesso rilevano importanti disomogeneità tra punti di forza e aree di maggiore difficoltà. Per ogni nuovo paziente, facciamo una raccolta anamnestica molto approfondita per valutare retrospettivamente le tappe dello sviluppo sul piano del linguaggio e della motricità o, ancora, se vi siano state difficoltà scolastiche“.
Lo psichiatra prova poi a fare chiarezza sul perché una persona decida autonomamente di sottoporsi a questi test, come fatto proprio da Tallulah Willis. “Stiamo generalmente parlando, voglio ribadirlo, di forme lievi di autismo che sono sfuggite a una diagnosi in età infantile o che hanno causato maggior malessere con l’età adulta quando le richieste socio-relazionali sono aumentate. In caso di persone già note ai servizi della neuropsichiatria infantile, queste potrebbero aver avuto difficoltà nel neurosviluppo, ad esempio episodi di balbuzie, tic, estrema timidezza, o aver ricevuto sostegno scolastico per problematiche di apprendimento. Situazioni in qualche modo poi superate o che comunque non hanno presentato sintomi sufficienti per una diagnosi conclamata di autismo. Il percorso diagnostico è, dunque, estremamente complesso”.
“L’esperienza clinica- dice ancora- ci insegna che una persona come Tallulah Willis potrebbe aver riflettuto su alcune esperienze di vita e aver deciso di voler andare all’origine delle proprie difficoltà, cercando una diagnosi di questo tipo. Non è inusuale, infatti che persone con autismo, specialmente lieve, abbiano grande consapevolezza del proprio modo di essere e funzionare, si documentino moltissimo e spesso arrivino anche ad un processo di autodiagnosi”.
Secondo l’esperto “quando queste persone cercano aiuto in età adulta occorre valutare se vi siano problematiche legate allo spettro dell’autismo che rendano difficoltoso il loro funzionamento psicosociale da adulti. La diagnosi di autismo va posta in questa cornice, come per tutte le altre condizioni neuropsichiatriche, dove queste, per essere tali, devono causare una compromissione significativa del funzionamento attuale in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti. In quest’ottica, stiamo anche cercando di identificare alterazioni biologiche, per esempio con esami del sangue, che possano rappresentare la firma biologica dell’autismo e che siano passibili di modifiche una volta avviati i possibili
interventi terapeutici”.
“Ovviamente- evidenzia inoltre- la qualità della vita di una persona adulta con autismo dipende dalla severità della condizione, dal livello di supporto richiesto. Escludo che una forma severa sfugga alla diagnosi in età infantile. Viceversa, le persone adulte con forme lievi spesso fanno una vita normalissima, possono avere grandi soddisfazioni sul lavoro, specialmente se collimano coi loro interessi“.
Oggi ricevere una diagnosi di autismo in età adulta sembrerebbe non pesare su chi ne è affetto. “Nella mia esperienza clinica sono spesso sollevati dal ricevere una diagnosi di questo tipo, specialmente se l’hanno cercata a lungo, se questa diagnosi fa chiarezza su cose fino a quel momento inspiegabili. La diagnosi viene dunque accettata molto positivamente, in una lettura sociale sempre meno stigmatizzante dell’autismo. Abbiamo conosciuto ragazze e ragazzi che si sono commossi insieme ai propri genitori perché hanno finalmente potuto dare una spiegazione ai tanti dubbi che avevano e alle tante difficoltà che hanno affrontato nel corso della propria vita”.
Marco Colizzi coordina un team di ricercatori che sta indagando se la palmitoiletanolamide, PEA, una molecola endogena con proprietà anti-infiammatorie, lipolitiche e neuroprotettive, possa avere un effetto positivo anche nell’autismo adulto. “È proprio quello che vogliamo scoprire. Si tratta di un acido
grasso simil-cannabinoide già presente nel nostro organismo che si può assumere come alimento a fini medici speciali, senza necessità di prescrizione medica. Nella sua forma ultra-micronizzata viene assorbita più facilmente e può dare un beneficio al livello del sistema nervoso centrale. Nel 2021 abbiamo condotto la prima revisione della letteratura circa il ruolo della PEA nell’autismo, pubblicata su ‘Nutrients’. Lo studio che stiamo attualmente conducendo- conclude- è il primo che sta testando PEA ultra-micronizzata in adulti con autismo”.