“Io ci provo”, un film che dà voce ai ragazzi

“Io ci provo”, un film che dà voce ai ragazzi

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Un film intenso che, come pochi altri, dà voce ai ragazzi dello spettro dell'autismo: passioni, paure e tanta voglia di farcela. «Siamo persone come tutti gli altri. Questa è una cosa che la società fa difficoltà a comprendere». «Prima avevo una crisi di identità. Ma ho imparato ad accettarmi». «Siamo ragazzi in difficoltà, che hanno bisogno di aiuto per imparare. Per imparare a parlare». «Autismo non è stare sempre solo, ma anche stare in gruppo ed imparare dagli altri».

«Alle medie non mi sentivo apprezzato come persona. Ho cercato di esprimermi con la scrittura per far capire alle persone "normali", che le persone con autismo qualche cosa decente la sanno fare». A parlare sono Antonello, Denis, Adis, Francesco e Francesco, cinque ragazzi nello spettro dell'autismo che frequentano il Centro di Riabilitazione per l'Autismo La Casa di Michele dell'Aquila. Sono loro i protagonisti del bellissimo documentario Io ci provo, di Francesco Paolucci, nato da un'idea di Francesco Paolucci e Rosario Sabelli, psicologo psicoterapeuta con in quel centro lavora, ogni giorno, con 58 ragazzi. Io ci provo, realizzato da Kerato Film con la Cooperativa Sociale Lavoriamo Insieme, è stato presentato in varie scuole durante la settimana di sensibilizzazione per l'autismo all'Aquila, e verrà presentato al Trapani Film Festival a giugno.

Una delle chiavi del film è proprio quel "normali", che, mentre lo pronuncia, Francesco mette tra virgolette. Chi sono le persone normali? «Le persone normali sono quelle che si sentono migliori. Perché mi sentivo un po' abbassato rispetto a loro» risponde. Vuol dire che siamo spesso noi a definirci normali e in questo modo etichettiamo l'altro come diverso. E spesso, invece, così diversi non siamo. «Questo è uno dei punti chiave» concorda con noi Francesco Paolucci. «Dentro c'è tutto. C'è l'idea di quello che vuole comunicare il documentario. Non è un documentario sulla malattia mentale, sul disturbo mentale, neanche sull'autismo nel senso stretto della parola. Quel sentirsi abbassati, come dice lui, rispetto ad altri è una sensazione che abbiamo provato tutti, soprattutto negli anni dell'adolescenza, a scuola. Come la sensazione di Francesco che dice di sentirsi il fantasma. L'approccio che c'è stato nel montaggio, nella scelta del materiale, che è stato raccolto durante un lavoro di quattro anni, è stato quello di trovare delle frasi che non raccontassero solo loro, ma che servissero da specchio. Che facessero dire a chi guarda: ma questa sensazione l'ho provata anch'io. È un passaggio che vuole abbattere le differenziazioni tra i normali, i cosiddetti sani, e i malati». «A volte mi sento come un fantasma, che è trasparente, invisibile. Come se fossi una coscienza che dà supporto a loro, ma mi preoccupo del fatto che forse loro non mi considerano come un essere umano», aveva detto l'altro Francesco davanti alla macchina da presa. Ascoltare parole come queste non può lasciare indifferenti. Io ci provo è un film che, ci crediamo, avrà una vita lunga, verrà proiettato in molte scuole, università, associazioni. Per richiedere il film per una proiezione potete contattare:

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«Io ci provo vuol dire questo: noi ci proviamo, ma poi gli altri devono darci delle possibilità per metterci in gioco, vedere i nostri punti di forza»

Già da queste parole si può capire come Io ci provo sia un film intenso che, come pochi altri, dà voce a questi ragazzi. Quello che colpisce, quando viene chiesto loro che cos'è lo spettro dell'autismo, è che ognuno dei ragazzi ne ha una sua visione, ma tutti hanno una loro consapevolezza di essere particolari. E, soprattutto, di come fare per superare questa condizione, per far sì che non sia un limite. Io ci provo vuol dire proprio questo. «Quando parliamo di autismo ci sono due termini che sono importanti: la neurodiversità, che sarebbe il mondo delle persone all'interno dello spettro e la neurotipicità che sono tututti gli altri» ci spiega Rosario Sabelli. «Questi cinque ragazzi li seguo ormai da anni. Quello che abbiamo voluto raccontare innanzitutto è una quotidianità. A risaltare è il loro quotidiano, ma anche il lavoro che faccio io con i miei colleghi, la bellezza di condividere con loro non quello che manca, ma quelli che sono i punti di forza. Ognuno di loro ha una capacità particolare. I punti di forza servono come collante per costruire quell'aggancio con la società, con gli altri. Durante il percorso di riabilitazione o abilitazione, nel nostro centro di riabilitazione per l'autismo all'Aquila, ci rendiamo conto che manca quel collante tra il cento e la quotidianità, gli altri. Abbiamo voluto creare questo. "Io ci provo" vuol dire questo: noi ci proviamo, ma poi gli altri devono darci delle possibilità per metterci in gioco, vedere i nostri punti di forza. È un lavoro che dura da anni: ho conosciuto Adis che aveva sei anni. A un certo punto dice che l'autismo è imparare a parlare. Lui era un non verbale, e ha avuto un'evoluzione enorme». «Tempo fa quando abbiamo iniziato con i ragazzi un corso di cucina. E parlando con Francesco ci siamo detti, perché non parlarne in un documentario?» ci spiega Sabelli. «Partendo dal corso di cucina ci siamo detti: perché non ampliarlo, e raccontare loro extra centro ed extra corsi di cucina, e raccontare la loro vita quotidiane, le loro passioni, le loro paure?» interviene Paolucci. «Così siamo andati su una barca. Il primo finale è la cena alla fine del corso. Ma il vero finale è quello: andare in barca e stare tranquillo con un ragazzo bravissimo a portarla»

E così Io ci provo ci porta nella vita di questi ragazzi. Ci mostra i loro punti di forza, che poi sono le loro passioni. Doppiare i cartoni animati, diventare la voce dei personaggi che si amano, all'inizio con ansia, ma poi sempre con più piacere. La chitarra elettrica, che sembra facile da suonare ma non lo è, ma si può imparare se si sta tranquilli. E ancora, la palestra, i tatuaggi, il servizio civile, il mixer, la patente e il piacere di guidare. Il film è fatto di metafore, come quella bella barca e delle onde. O il doppiaggio, cioè il mettere se stesso, la propria voce, all'interno di un altro personaggio, voler essere qualcun altro. Ma è anche molto ancorato alla realtà, attraverso tante cose tangibili, gli oggetti e le attività di cui stiamo parlando. C'è la voglia di mostrare quanto possano fare, a livello manuale e intellettuale, nella vita reale, questi ragazzi. Il messaggio è: si può fare. «Soprattutto se ci sono dei contesti come il centro dove lavora Rosario che ti incoraggiano, ti spingono, ti fanno credere in te stesso» spiega Francesco Paolucci. «Il loro lavoro è questo, fondamentalmente: far capire loro che devono credere in loro stessi. Ci devono credere le famiglie, e la società, che dovrebbe andare ad accogliere il lavoro che fanno loro». «Abbiamo organizzato una settimana dedicata all'autismo» ci spiega Rosario Sabelli. «Ma invece di raccontare noi l'autismo, come si fa di solito il 2 aprile, con convegni ed edifici illuminati di blu, abbiamo voluto che l'autismo si raccontasse attraverso le capacità dei nostri ragazzi: il documentario, la mostra fotografica. Cerchiamo di creare consapevolezza attraverso l'incontro con i ragazzi, per capire che cosa significa essere autistico. Questi cinque ragazzi rappresentano i 58 ragazzi che seguiamo al centro. In ognuno di loro c'è la formula: io ci provo. Dall'andare a prendere un caffè al bar, fino compilare la richiesta per un lavoro».

«Il nostro destino ce lo dobbiamo costruire noi. Con le nostre scelte, le nostre decisioni. Il più bello deve ancora arrivare» dice uno dei ragazzi. Quell'idea di dire "io ci provo" è molto forte in loro. Per tutti l'aspirazione è quella di avere un lavoro per avere una casa, una vacanza, per avere una loro libertà. C'è in tutti loro, questa idea di fare dei piccoli passi, cosa che la nostra società ha dimenticato, perché vogliamo avere tutto subito. «Questo è un argomento fondamentale quando parliamo di autismo: l'organizzazione strutturata» riflette Rosario Sabelli. «Come dice Antonello, step by step, passo dopo passo. Prendere familiarità con il primo passo, conoscerlo bene, sentirsi sicuri, acquisire una consapevolezza per poi passare al passo successivo. È una capacità che hanno tutti e cinque, ma è qualcosa che hanno tutti i ragazzi che seguo». E quel destino che i ragazzi dicono di volersi costruire, che poi è il loro futuro, può arrivare anche da un corso di cucina, che può portare a un lavoro domani. I momenti in cui i ragazzi sono ai fornelli con Andrea Lo Cicero, ex rugbista e cuoco, sono molto intensi. «Andrea ha una grande passione per la cucina ed è stata una grande scoperta» ci ha spiegato Sabelli. «Si è reso disponibile, ha sposato il progetto. Ieri è tornato per un'altra grande cena con i ragazzi. Il 14 luglio 2022 abbiamo fatto una cena presso un campo da rugby, a Paganica. Ieri siamo entrati in un ristorante vero, con un servizio a tutti gli effetti, per 150 persone. Venerdì siamo stati in città con degli studenti per una giornata di pulizia. Era importante arrivare a più persone possibili. La giornata mondiale dell'autismo non può essere solo illuminare un edificio e stare tutti con la coscienza a posto»

«Non temiamo il destino. Non ci tireremo indietro. Prima di diventare schiuma saremo indomabili onde»

Uno dei momenti più emozionanti del film è quello in cui si parla di paura. C'è quella legata alla loro condizione, certo. Ma le loro sono paure che potremmo avere tutti, come quella di restare soli. E in fondo le nostre paure sono quelle che ci definiscono, che ci delimitano. «Francesco, sull'autobus, dice che la paura è un'emozione. E questo è anche un discorso sulle emozioni, quando si parla di presume che con le emozioni fanno un po' a botte. Ma facciamo tutti a botte con le emozioni» riflette Francesco Paolucci «A un certo punto dice che la paura è un'emozione importante. Perché avendo paura si impara una lezione. E quando gli chiedo se gli piace la nebbia, dice che la nebbia è bella, ma se è toppa copre tutto e non va bene. È come la paura: va bene avere paura, ma se è troppa si rimane immobili. Proprio quel ragionamento mi ha fatto venire in mente di chiedere agli altri delle riflessioni sulla paura. Ma nel documentario c'è anche la mia di paura, quella di dover scegliere cosa mettere nel montaggio, di tenere degli equilibri. Questo è un piccolo documentario di filosofia, si parla di tante cose. È una lezione di filosofia che non diamo né io né Rosario».

In Io ci provo c'è un grande lavoro sugli oggetti, sulla realtà. Ma c'è anche un grande lavoro sui volti, che escono benissimo, in primo piano, in modo che l'emozione arrivi tutta. «È la prima volta che arrivo alla fine di un film senza sapere come montarlo» ci confessa Paolucci. «L'unico schema prefissato erano delle scene in cui Rosario cucina. Non si vede, ma è lui che ha tirato le fila dei laboratori ai fornelli. Ci sono gli oggetti, le ritualità del cucinare, certe ossessioni degli chef, Lo Cicero che dice "qua deve essere tutto pulito" è un modo per dire che l'atteggiamento ossessivo non ce l'hanno solo gli autistici ma ce li abbiamo tutti». «Il resto è restituire quello che vivo, le sensazioni, senza aggiungere troppo, un lavoro di sottrazione» aggiunge. «Gli sguardi che sono tenuti tanto sono importanti perché credo che tante volte, alla fine di una frase, lo sguardo dopo aver detto qualcosa di importante aggiunge molto di più di qualsiasi altra parola». Così come dicono tanto le parole di Francesco che chiudono il film. «Non temiamo il destino. Non ci tireremo indietro. Prima di diventare schiuma saremo indomabili onde".

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